Romanzo di una strage

Benedetta Tobagi

 

 

 

Il film ha scatenato una tempesta di polemiche. Credo vi sia del buono in questa vivacità: chiunque si avvicina al film,è avvertito delle "libertà" autoriali rispetto a taluni fatti storicamente accertati. Ossia della distanza tra la rappresentazione dei personaggi portati sullo schermo da Mastrandrea e Favino e gli uomini reali Giuseppe Pinelli e Luigi Calabresi (e Aldo Moro, che nel film incarna con sofferenza i tragici dilemmi di chi si confronta con la ragion di stato). Il linguaggio filmico, come l'immagine televisiva, ha un potere subliminale straordinario: quello che vedi, ti sembra reale. Ma un film non è la verità, né ambisce ad esserlo.

Però, è una riflessione, un'interpretazione e un buon punto di partenza per avvicinarsi a quella storia. Ben vengano le voci critiche e polemiche di chi c'era: danno la misura di quanto piazza Fontana, la morte di Pinelli e Calabresi abbiano diviso l'Italia.

Adriano Sofri ha prodotto addirittura un instant book ricco di documenti, che contrastano le tesi del libro di Cucchiarelli (cui, a tratti, il film si ispira). Ben vengano materiali di "accompagnamento", integrazione, correzione, critica a un'opera di finzione che immerge le mani nella Storia. Magari in qualche scuola si spingeranno perfino a lavorare su qualche sentenza, un lavoro utile per la formazione della coscienza criticae storiografica degli studenti: gli atti dei processi oggi sono tutti digitalizzati.

Dobbiamo a chi ha avuto il coraggio di fare questo film un dibattito vivace come non lo si vedeva da anni. Non solo. Romanzo di una strage incide nella coscienza dello spettatore la responsabilità dei terroristi neri di Ordine Nuovo per le bombe esplose nel 1969, con la complicità dei servizi segreti. Mostra uno Stato tragicamente lontano dalla Costituzione formale, ancora innervato di residui del regime fascista. Rinnova la vergogna e l'indignazione per il modo in cui la responsabilità delle bombe è stata pervicacemente addossata agli anarchici. La pratica di disseminare false "piste rosse" continuerà a lungo: ancora nel 1973 l'ordinovista Nico Azzi, in tasca una copia di Lotta Continua, tenta di piazzare una bomba su un treno. Alcuni cartelli, in conclusione, ribadiscono quanto accertato dalle sentenze. Aggiungiamo alcuni dati: il terrorista di Ordine Nuovo, Carlo Digilio, è stato condannato per aver fabbricato l'ordigno esploso nella banca dell'Agricoltura, l'unico la cui esistenza è storicamente accertata, quello che ha massacrato 17 uomini innocenti il 12 dicembre 1969, i cui nomi possiamo leggere nei titoli di testa: il film è dedicato a loro.

Condannati anche i funzionari del Sid Labruna e Maletti. Il generale Maletti se ne sta in Sudafrica, per sfuggire alle condanne passate in giudicato. Da lì, in videoconferenza, ha deposto nel tribunale di Brescia, dove è ancora in corso (purtroppo ne parla solo la stampa locale) il processo d'appello per la bomba di piazza della Loggia del 1974, confermando l'autenticità di un plico di note informative nascoste ai magistrati inquirenti fino agli anni Novanta, che avrebbero potuto indirizzare le indagini per quell'altra bomba (ha ucciso 8 innocenti) verso la rete terroristica di Ordine Nero, "gemmazione" di Ordine Nuovo.

Lo spettatore assiste alla violenza con cui la celere manganellava i manifestanti, segue inorridito la tragedia di Pinelli, innocente, diffamato, illegalmente trattenuto dalla polizia.

Incontra la solitudine dei magistrati Paolillo, Calogero, Stitz, che per primi individuarono il bandolo che portava ai veri autori della strage, e il "pistarolo" Marco Nozza, anima del movimento dei "giornalisti democratici" che non vollero piegarsi all'informazione asservita al Potere, appiattita sulle linee guida dettate dal ministero dell' Interni: con lui, giornalisti come Corrado Stajano, Camilla Cederna, Giorgio Bocca, maestri che hanno svolto una funzione civile straordinaria nel destare le coscienzee promuovere la composta reazione civile che ha contribuito ad arginare le spinte golpiste. Che c'erano, eccome! Ed era dalla parodia grottesca di Vogliamo i colonnelli di Monicelli (1973) che qualcuno non le portava esplicitamente sul grande schermo. Come ricercatrice, mi prudevano le mani, di fronte ad alcune "interpretazioni" e illazioni. Ma ho anche ammirato quanti contenuti questo film riesca a veicolare a un grande pubblico. Non è poco, anzi: è moltissimo. Adriano Sofri s'interroga sull'effetto che avrà sui giovani questa rappresentazione dell'"onnipotenza tenebrosa" della strategia della tensione e chiosa: "Non è vero che quella storia continua: è consumata, ed è bene che lo sia. I ventenni, è bene che la sappiano, ma non è e non sarà più la loro". Una formulazione che mi perplime: le passioni, le impressioni, le memorie di chi c'era, quelle non appartengono a chi ha meno di 43 anni.

Ma la storia, accidenti, è nostra, eccome: da lì veniamo, cresciuti all'ombra di questi fantasmi. Se non esiste più il quadro internazionale della guerra fredda, le inchieste in corso sulla trattativa Stato-mafia mostrano con dolorosa evidenza che certi meccanismi occulti del potere, contrari alla legalità costituzionale, cambiano pelle, ma non spariscono.

Giordana, come autore, ha comunicato con onestà la propria visione e anche un senso di amarezza. Ci costringe a ragionare su quello che è successo. A interrogarci sull'Italia di ieri e oggi.

"Non ho paura della verità, io" dice Licia Pinelli in una delle scene più potenti del film. La ferma dignità di quella frase entra come un coltello nella coscienza.

Accanto all'"onnipotenza tenebrosa", silenzi e derive violente, Giordana mostra esempi di impegno, civismo, onestà, resistenza nonviolenta. Gettarono i semi del lavoro di verità, dentro e fuori le istituzioni, che oggi ci permette di additare i colpevoli.

Guardare il male in faccia è un rito iniziatico. È la premessa per fare diversamente, tenendo in vita le motivazioni e il "senso" della resistenza al male e alle forme più perverse della ragion di Stato di tanti uomini e donne di buona volontà, travolti dal fiume violento della storia, a cui dobbiamo i valori e le parti migliori della società in cui viviamo.

 

la Repubblica, 2 aprile 2012